martedì 10 settembre 2013

La Bonette


Jausiers - la Bonette - Jausiers (Km 46)


L'agosto più interessante degli ultimi anni si chiude con una bella quanto faticosa rivincita su quel col de la Bonette che quattro anni fa mi costrinse alla resa, e che anche stavolta mi fa penare non poco prima di essere domato. Detto che la topografia del luogo è alquanto confusa (il col de la Bonette è in realtà a 2715 m, e da lì inizia l'anello che gira intorno alla cima e raggiunge i famosi 2802 m), chiamerò semplicemente 'Bonette' il punto culminante della scalata, essendo chiaro a chiunque a cosa si riferisce la pomposa definizione di 'Plus haute route d'Europe', altra imprecisione dal momento che il Pico del Veleta in Spagna la supera di oltre 500 metri. Lasciando da parte le riflessioni sull'esatta terminologia da adottare, rimane intatta la soddisfazione di aver portato le ruote della bicicletta nel punto più elevato di sempre, superando i 2770 dell'Iseran e, in casa nostra, i 2744 dell'Agnello; per contro, direi che i paesaggi della Bonette, a cavallo tra i dipartimenti delle Alpi Marittime e di quelle dell'Alta provenza, non valgono quelli di altri colossi di poco più bassi, ma qui il giudizio non può che essere soggettivo e di certo avrà pesato la giornata meteorologicamente non troppo azzeccata, se è vero che la cima è stata quasi sempre coperta e che le nuvole hanno di fatto impedito la visuale sullo spettacolare versante sud.
Il punto di partenza a Jausiers implica una discreta levataccia e un paio d'ore di trasferimento in macchina su statale con scollinamento del colle della Maddalena, non proprio l'ideale per preparare un giro in altissima quota, in cui le variabili vanno ben al di là di chilometraggio e dislivello: ne risulta che fin dalle prime pedalate su pendenze tutt'altro che trascendentali sento le gambe meno fluide della settimana precedente, e per quanto sia convinto di centrare stavolta l'obiettivo, mi preparo a quello che in effetti sarà, una dura arrampicata che mi spremerà fino all'ultima goccia di sudore.
I primi 5-6 chilometri salgono abbastanza regolari al 6-7%, superando una serie di tornantini e alcune borgate, col sole che solo a tratti comincia a spuntare al di sopra delle imponenti vette che fanno da contorno alla strada; la temperatura è ideale e sarebbe il terreno perfetto per spezzare il fiato e scaldare le gambe in vista della parte centrale della salita, la più impegnativa coi suoi dieci chilometri all'8% medio. Peccato che qualcosa non giri come mi aspettavo e che fatichi più del dovuto a mantenere il ritmo e leggere i rari cambi di pendenza.
Quello che invece mi aiuta a proseguire di buona lena anche quando i cartelli a bordo strada cominciano a indicare medie all'8-9% è l'atmosfera unica dell'alta montagna che quest'anno ho solo assaporato negli ultimi chilometri a Champillon e che qui inizia invece a farla da protagonista quando ancora mancano più di dieci chilometri alla vetta: gli alberi si diradano velocemente e la roccia e i dirupi diventano gli unici compagni di viaggio mentre l'ossigeno si dirada, la pedalata si appesantisce e la testa comincia a fare calcoli che puntualmente le gambe manderanno a ramengo, come dimostrerà un leggero quanto inaspettato crampo al polpaccio destro in occasione dell'unica breve contropendenza.
Supero la fatidica quota 2000 e per qualche minuto mi sembra di aver finalmente trovato la cadenza giusta, ma è un'impressione illusoria dovuta a una momentanea diminuzione della pendenza. Quando si ricomincia a salire al 9-10% per affrontare uno dei tratti più duri di tutta la salita, la velocità cala improvvisamente e - quel che è peggio - sento lo stomaco stringersi e il fiato accorciarsi. Sto rischiando seriamente di andare fuori giri quando manca tantissimo alla fine e prendo l'unica decisione sensata in un momento di crisi: fermarmi un momento, tirare il fiato e poi riprendere con tutta la calma possibile.
Qualche minuto di riposo e ricomincio la scalata. La gamba tutto sommato gira ancora discretamente, ma sono consapevole che sarà dura arrivare in cima. Per qualche chilometro si continua a salire su pendenze non lontane dal 10%, a brevi tratti anche superiori. Raggiungo e mi lascio alle spalle il punto in cui quattro anni fa avevo deciso di mollare, poi il laghetto di Eissaupres e una successva serie di tornanti, fino a giungere in vista delle caserme del Restefond in capo a una lunga rampa che mi pare durissima ed eterna. Ho raggiunto quota 2550, manca davvero poco alla Bonette, i tre chilometri più facili fino al colle e poi l'erta finale, ma ho speso quasi tutto e devo fare una nuova sosta e poi un'altra poco più in su, in corrispondenza del col de Restefond, dove la strada incrocia la sterrata proveniente dal col de la Moutière. Da qui al col de la Bonette manca soltanto un ampio curvone in falsopiano che supero senza troppe difficoltà, fino ad arrivare al cartello dei 900 metri alla vetta posto all'inizio del celebre anello attorno alla cima, un chiaro espediente del tutto fine a se stesso per raggiungere la fatidica quota 2800.
Sono ormai dentro le nuvole che salgono dall'altro versante e talmente in alto che neppure l'erba riesce più a crescere, attorno a me un paesaggio lunare di detriti di pietra nera che formano uno scosceso pendio su cui si abbarbica il sottile nastro di asfalto. I primi 100 metri sono ancora pianeggianti, ma quel che segue è una serpentina con successiva curva a sinistra su pendenze costantemente sopra il 10%, o almeno così mi pare dal momento che riesco a superare l'ultimo ostacolo soltanto ad andatura da tartaruga e a prezzo di un incredibile sforzo, al punto che la vista del cippo ormai a pochi metri dalle mie ruote mi genera una sensazione di sollievo più che di vittoria, come quasi sempre accade quando centro un obiettivo così ambito e atteso.
In vetta c'è un viavai di moto e di ciclisti che immortalano la lapide della Bonette con dietro il mare di nuvole, rito al quale non posso naturalmente sottrarmi neppure io, ma quando mi siedo per cambiarmi e indossare la tenuta invernale in vista della discesa, mi accorgo che prevale un senso di stanchezza che mi induce a rinunciare - forse in via definitiva - all'idea di tentare il Galibier da nord: al di là della difficoltà in sé, è il contorno di 4-5 ore di auto che rende troppo faticosa l'impresa, e francamente sento che non ne vale la pena. Cercherò una buona meta alternativa e nel frattempo mi godo una discesa che perfetta è dire poco, prima di sobbarcarmi un'altra bella dose di chilometri per tornare alla base, stanco ma felice. O per meglio dire: felice ma stanco.

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